Redazione ArtApp
6 giorni fa
Se l’architettura è il vuoto che intercorre tra una cosa e l’altra, tra una casa e una casa come tra le case e gli uomini, quel vuoto attraverso il quale l’uomo costruisce le sue relazioni e intorno al quale definisce il suo contesto, ecco che posso affermare che è sempre e solo l’architettura a disegnare la città.
Uso il termine disegno per esprimere quello che esattamente un disegno significa: sintesi tra idea e progetto, tra utopia e modificazione, il disegno rende la città visibile. É Marco Polo a ricordarci che “Anche le città credono d'essere opera della mente o del caso, ma né l'una né l'altro bastano a tener su le loro mura. D'una città non godi le 7 o 77 meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.
Se Calvino, mostrandoci l'inferno che viviamo, abitiamo, formiamo stando insieme, ci indica due modi per non soffrirne: accettare l'inferno, diventandone parte fino a non vederlo o provare a riconoscere chi e cosa in mezzo a questo inferno non è inferno e farlo durare dandogli spazio, ecco che all'architetto si affida il compito di costruire lo spazio della possibilità. Se la distanza tra il desiderio e la realtà è siderale, così come la distanza tra il visibile e l'invisibile, tanto da rendere i nostri luoghi difficili da vivere, dobbiamo chiederci qual'è il confine tra il visibile e l'invisibile e prendere consapevolezza che l'architettura rende visibile il desiderio attraverso l'astrazione.
Penso che soltanto attraverso il desiderio si possa costruire una possibilità di modificazione, e se il progetto per definizione presuppone modificazione, è attraverso il desiderio che il progetto può cambiare l’equilibrio del mondo.
Desiderio come anelito, sogno (utopia possibile) e non come rinuncia nell’attesa; desiderio quale strumento della possibilità (nella modalità ottativa che lega desiderio e possibilità); desiderio che vive e lascia vivere nella rivoluzione continua di un’eticità dinamica che costruisce il paesaggio nel suo vero e unico profilo: quello che deve ancora definirsi.
Renzo Piano dice che la città si fa da sola in un divenire non programmato, e se è pur vero che una eventuale codificazione del suo definirsi, come sostiene Rem Koolhaas per New York, può farsi solo a posteriori, solo quindi a città tangibile, non è così per l'architettura dove, come scrive Aldo Rossi nella sua autobiografia scientifica “tutto è previsto ed è questa previsione che permette la libertà; è come un appuntamento, un viaggio d'amore, una vacanza e tutto ciò che è previsto perché possa accadere”. L'architettura rende visibile la città.
Se lo stesso Rossi sostiene che “possiamo giudicare solo quelle operazioni che si compiono” invitando a “cercare l'ordine per poter modificare davvero il mondo”, allo stesso tempo non possiamo e non dobbiamo sottovalutare che è attraverso il visibile che riusciamo a guardare l'invisibile, che solo attraverso il desiderio possiamo provare a definire l'invisibile fino a renderlo tangibile, permettendo così all'architettura pensata, anche all'architettura di carta (quella accatastata nei cassetti, quell'architettura intima che stanzia come una vita di scorta in attesa della possibilità del suo manifestarsi) di intaccare la città visibile fino a cambiarla senza neppure sfiorarla.
Ecco che prende corpo il concetto di rinuncia: rinuncia come progetto; rinuncia al gesto eloquente: se trattenuto il gesto può essere più forte e determinante di una apparente concretezza. Niente è più concreto del pensiero.
Il troppo pieno ci assale e l’unico progetto autentico non può che essere, nella direzione della sottrazione, quello del vuoto. L'architettura dovrebbe parlare di autenticità, di verità, di ragione e necessità; l'architettura dovrebbe interessarsi al mondo reale. Mies van der Rohe sosteneva che “per un architetto essere buono [significa] abbandonare l'originalità e realizzare ciò che è necessario. In altre parole: servire invece che dominare […] persistere nell'umiltà, rinunciare all'effetto e compiere fedelmente il necessario e il giusto”.
Più di mezzo secolo è passato e noi progettisti sembriamo allontanarci sempre di più da questo assunto cercando, nel migliore dei casi, di stupire con il proprio fare autoreferenziale; nelle nostre città e nelle nostre case, ancor più nei nostri musei, si sono accumulati sempre più oggetti che sottraggono spazio alle cose e agli uomini (alludo alla differenza posta da Remo Bodei tra oggetto inteso come ostacolo e cosa che in quanto costruita dall'uomo per necessità ha una sua autonomia e genera relazioni).
Se il progetto è un processo di eliminazione e alleggerimento progressivo che ci permette di avvicinarci all’essenza, ragione vera di ogni processo progettuale, non possiamo non interrogarci sugli aspetti etici del fare e provare a dare un contributo fattivo alla modificazione del pensiero dominante, che finalizza il nostro lavoro alla costruzione di un prodotto in grado di soddisfare l’esigenza di novità continua e cambiamento richiesta dalla moda e dal mercato. Contrario alla logica del prodotto, il progetto è ricerca del necessario sul percorso della rinuncia: rinuncia come misura e ordine dello spazio, del tempo e della forma. rinuncia alla firma, all’originalità, alla novità a tutti i costi, rinuncia al superfluo non necessario.
Ci si interroga spesso sul rapporto tra città e arte! Se dell'arte posso dire di avere un'idea chiara che mi porta a non credere in essa con determinazione, non posso spingermi a sostenere lo stesso della città, nel senso che forse non ho ancora un'idea di città. Certo è che ho cominciato a lavorare ai tracciati di dismissione, scoprendomi sempre più interessato agli intervalli, ai vuoti che costruiscono le relazioni tra manufatti e presenze di altre architetture; affascinato dalle distanze, auspico demolizioni e programmo insabbiamenti di città o almeno di parti di esse, continuando a interessarmi della forma e provando a non cadere nel formalismo che tanto caratterizza la ricerca italiana.
Questo per dire che comincio ad avere un'idea, semmai, di architettura.
Articolo pubblicato su ArtApp 14 | LA CITTÀ
Chi è | Lucio Rosato
(Lanciano 1960) architetto, viaggia sui territori al limite tra la concretezza del pensiero e l’astrazione della materia realizzando altre architetture. Soprav/vive e prende appunti a Pescara.
© Edizioni Archos
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