Redazione ArtApp
4 giorni fa
Salomone nel Cantico dei Cantici
Quando ho scelto il tema della prigione lo pensavo più semplice, in fondo ognuno di noi nella vita si è sentito più volte prigioniero di scelte rivelatesi sbagliate o di luoghi non disposti a essere abitati, o ancora dei propri sentimenti in contraddizione con i nostri ideali. Se abitare significa creare relazioni con l’ambiente che ci circonda, sia esso artificiale o naturale, essere prigionieri significa non potere abitare. Abitare innesca, infatti, processi interattivi con le persone, l’ambiente e il territorio. L’arte dell’abitare consiste in uno scambio vitale, nella capacità di adattare il corpo e la mente all’ambiente circostante, consentendoci di evolvere. Per disporre il proprio corpo a questa evoluzione è necessario un mondo dove questo possa muoversi ed esprimersi con senso.
Perché la mente possa muoversi libera ci serve allenamento poiché, molto più pigra del corpo, tende ad appoggiarsi ai luoghi comuni, a congedarsi, a disinteressarsi. Tende a una progressiva cecità che riduce la nostra percezione delle cose anche quando sono ben in vista.
Imprigionare i migranti entro quelli che riteniamo essere i loro confini o farli vagare nel mondo, escludendoli da quello che riteniamo solo nostro, è la prigione che ci rinchiude. Significa ridurre l’interesse per il mondo e quindi il grado di vitalità che dovrebbe esserci proprio.
Non c’è dubbio che nel nostro paese, come nel resto d’Europa, possediamo un patrimonio immobiliare pubblico (di uso collettivo) superiore alle nostre necessità e che, non sapendo come utilizzarlo, trasformiamo in musei di qualsiasi cosa. Ogni nostro lavoratore mantiene 2 pensionati e la fertilità delle donne italiane è scesa al 27%. Il nostro è un paese destinato a morire di vecchiaia.
Perché allora non invitare, come del resto già i Romani avevano fatto nel 212 d.C., i migranti a stabilirsi da noi con le loro famiglie?
La prigione è quel guscio che ci impedisce di vivere l’ambiente in cui siamo, di godere dell’osmosi tra natura e artificio, tra il macrocosmo e il microcosmo.
Caratteristica del prigioniero è non avere voce sociale e, poiché la coscienza senza voce perde di esistere (Jacques Derrida), allora prigione è anche perdita di coscienza oltre che della sola libertà fisica. La prigione ha a che vedere col corpo o con la mente, ma quando il nostro corpo può diventare prigione della mente e viceversa? Probabilmente è l’automobile la più subdola e diffusa prigione che, costruendo attorno a noi un microcosmo impermeabile, ci impedisce di percepire fisicamente odori, espressioni e stati d’animo, isolando anche la nostra mente da quelle che ci circondano. Considerata, alla sua apparizione, il mezzo per conquistare una libertà individuale, rispetto alle dinamiche della collettività, ha trasformato il nostro modo di porci rispetto al territorio e soprattutto alla città.
Proprio il Movimento Moderno, considerandola strumento del progresso, ha lasciato che entrasse nelle nostre città medievali e rinascimentali trasformando strade e piazze da luoghi d’incontri e relazione in semplici infrastrutture di comunicazione tra parti disgiunte di un’urbanità perduta.
Sono le automobili, che a tutti i costi abbiamo voluto fuori dall’uscio di casa, il vero corpo estraneo delle nostre città e questo perché inquinano l’aria che respiriamo, ci impongono livelli sonori impropri, ritmi e modi di abitare artificiali, ci impediscono di comprare sotto casa quello che ci serve, favoriscono la delinquenza e la rapina, fanno ogni anno più morti degli accadimenti criminosi, impongono nella nostra vita una vera e propria dittatura cui inconsciamente e tristemente ci siamo abituati e adattati.
Ascoltando la lectio di David Grossman alla Milanesiana, mi sono reso conto che la gelosia ossessiva è la peggiore prigione nella quale possiamo rinchiuderci. Un qualcosa di così soggiogante da cui risulta difficile liberarsi. Grossman tuttavia ne sottolinea anche l’aspetto creativo: quando la persona gelosa da equilibrata e posata si trasforma in un inventore di storie immaginarie, complesse e grandiose, il cui scopo è creare ripetutamente, talvolta nella maniera più assurda e folle, presunte situazioni in cui l’oggetto della sua gelosia incontra l’amante…
La gelosia ci porta a creare, con tutto il potere della nostra immaginazione, un giardino dell’Eden da cui saremo scacciati. È questo che succede ai carcerati recidivi? Il carcere come autopunizione e come gesto creativo di cui l’uomo ha bisogno per stare o non stare con gli altri uomini.
La società, tuttavia, non isola solo i criminali, ma anche i diversi, quegli uomini, quelle donne, quei bambini assolutamente inoffensivi, eppure non conformi alle logiche di decoro, di convivenza civile e di buon costume che la comunità dei benpensanti adotta silenziosamente, nel tempo, come difesa della propria quieta sopravvivenza, riducendo inesorabilmente la propria capacità di produrre cultura. Sappiamo che il razzismo è in realtà generato dal bisogno dei deboli di individuare il diverso per aggrapparsi a un’identità necessaria a riconoscersi vivi.
Eliminare e allontanare l’altro non accettato diventa così una difesa alla debolezza e all’insicurezza.
In Italia la legge quadro 180, quella di Franco Basaglia che impose la chiusura dei manicomi, ha 36 anni e ancora quei luoghi, dove per decine di anni si sono stratificate terribili sofferenze, sono in grado di produrre cultura solo ospitando artisti in grado di mediare la vita vissuta in quelle prigioni di uomini, donne, bambini, handicappati, matti e malati col nostro indifferente quotidiano.
È come se nell’inferno dei manicomi, dove le relazioni umane sono state trattenute da camicie di forza, catene e letti di contenzione, senza sorrisi, carezze e gioie, l’umanità, dimenticata fino alla morte, chiedesse di uscire dai muri, dai pavimenti, dagli scarichi. In quel caso la prigione è stata annullata regolamentando il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici e allora perché non farlo per i tossicodipendenti?
Foto dal Web
Qual è la differenza che impone di nuovo una prigione ai malati?
In Italia non più del 10% dei detenuti sono criminali, il 30% sono stranieri irregolari, il resto tossicodipendenti ed emarginati confondendo così il carcere con l’ospedale (hospitale).
La prigione che detiene, isolandolo, il nostro nemico sociale è il carcere. Dove la persona viene rinchiusa recidendo bruscamente un vissuto di anni costruito, nel bene e nel male, da infiniti attimi di emozioni, sentimenti, conflitti, amori e stupori che di colpo si congelano nella memoria e diventano attesa. Una vita sospesa, che lì dentro si consuma in un abitare fatto di relazioni non volute, violente, imposte. In Italia la legge che obbliga a far lavorare i carcerati in modo che siano produttivi e in grado di trovare un’occupazione una volta fuori è totalmente disattesa.
È possibile che una struttura così artificiale e organizzabile, un così importante bagaglio umano a totale disposizione della società, non riesca a essere culturalmente produttiva, ma al contrario rappresenti un consistente costo sociale?
È di questi giorni la notizia che in un dibattito pubblico tra alcuni detenuti del carcere di massima sicurezza di New York e gli studenti di Harvard, il team dei carcerati ha avuto la meglio sui super secchioni della prestigiosa Università del Massachusetts, argomentando in modo molto più originale la propria tesi, forse proprio perché non intrisa di benpensantismo di maniera, ma costruita su dolorose esperienze personali piuttosto che su astratte teorie.
Cesare Beccaria all’inizio del’700 nel suo trattato Dei Delitti e delle Pene, afferma che “non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa” (cap. XX). E allora qual è esattamente lo scopo del carcere? Punire, mortificando con la pena di un isolamento più o meno lungo dalla società con la quale è stato infranto un patto, o correggere quel comportamento risultato difettoso nell’ingranaggio sociale per poi rimetterlo in funzione? Sono due modi diversi di progettare il carcere per l’architetto consapevole che il suo mestiere è quello di trasformare gli spazi in luoghi di relazione, renderli abitabili nella consapevolezza che la forza dell’abitare non sta nella costruzione, ma risiede nei principi dell’ascolto e del dialogo che l’architettura non può ignorare.
Quindi nel primo caso applicherà a rovescio le peculiarità del luogo, negando l’architettura dell’abitare e nel secondo conferirà ai suoi spazi quei poteri performativi in grado di agire contemporaneamente sui comportamenti di tutti coloro che li frequentano, poiché, come nei luoghi di culto, l’azione acquista potere se è collettiva.
Chi è | Edoardo Milesi
Architetto, Fonda nel 1979 lo studio Archos orientandosi da subito, attraverso la partecipazione a concorsi di progettazione, verso un costruire fortemente connotato da dettami ecologicamente regolati nell’ambito di una lettura “forte” della realtà.nel 2008 fonda con un gruppo di artisti e architetti la rivista “ARTAPP” della quale è Direttore. Dal giugno 2009 è presidente del Comitato culturale della Fondazione Bertarelli. Nel 2012 fonda l’Associazione culturale Scuola Permanente dell’Abitare.
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© Edizioni Archos
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