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Maria Cristina Galli

Il giardino del pensiero

Il corpo da sempre, nella storia della rappresentazione, è paradigma dell’arte. É, insieme, soggetto e misura, fenomeno e concetto, entità reale e astrazione, metafisica e artificio, luogo e paesaggio

"Il tempo della luce", © Maria Cristina Galli

Spesso ci si pone di fronte al disegno come se si fosse affacciati al finestrino di un treno. Chiusi dentro un abitacolo, immobili, attraversiamo il paesaggio ammirandone la bellezza, riuscendo a cogliere rapidamente alcuni dettagli. Senza accorgerci che in realtà il paesaggio ci guarda, struttura e scandisce il nostro moto, il nostro andare. Allo stesso modo i disegni che appartengono alla nostra formazione e alla nostra cultura, hanno “fatto” la nostra sensibilità e strutturano il nostro sguardo e la nostra percezione; il nostro modo di conoscere il reale, di appropriarci del visibile. Il disegno comincia a parlare non appena si sfilaccia e comincia ad attraversarci, viaggiando nella nostra soggettività. È allora che lo sguardo diventa pensiero, dentro il paesaggio abitato dai segni.


Il disegno è uno strumento originale e identitario, in qualità di lingua naturale dell’artista. È dotato di movimento, di qualità esplorative che attraversano i diversi gradi di realtà per determinare le cose nella loro trasparenza al visibile. “Egli conosce soltanto la differenza tra il vedere, come cieco vedere, per cui tutto è una realtà priva di trasparenza, e il verace vedere, per cui tutto il sensibile diviene spirituale, come se l’invisibile fosse la realtà.” Karl Jaspers. Il corpo da sempre, nella storia della rappresentazione, è paradigma dell’arte. É, insieme, soggetto e misura, fenomeno e concetto, entità reale e astrazione, metafisica e artificio, luogo e paesaggio. Esiste in quanto elemento fisico e in quanto sistema di relazioni tra parti e soggetti numerabili che prendono senso proprio all’interno di un “Implexe”, per dirla alla Valéry.


"Studio per ortografia dell'arte", © Maria Cristina Galli


Il tutto è determinato dall’osservatore, cioè da chi lo mette in gioco, lo guarda, lo trasforma, lo interpreta, lo studia; lo conosce, quindi, in una operazione che si può definire concettuale. Questo non comporta l’analisi del corpo da un’ottica puramente estetica, e neppure sottintende uno sguardo esclusivo e soggettivo. La dimensione del corpo ammette, o forse, permette realmente la compresenza di differenti punti di vista. La sua rappresentazione, così come in una topografia, dipende dalla natura delle metamorfosi che lo compongono e che si stratificano, come segni essenziali, in una sorta di sintassi selettiva. “..Tra le immagini più arcane del quadrato si ascrive – chi non lo sa? – la figura disegnata da Leonardo seguendo le proporzioni della sezione aurea suggerite nel "De architectura" di Vitruvio. Quell’uomo, inscritto tanto nel cerchio quanto nel quadrato, sintetizza l’idea rinascimentale dell’homo mensura.” Riccardo Notte.


Quasi come in un atlante geografico la scrittura del corpo, le sue definizioni, la suddivisione in parti e la ricomprensione in un unicum complesso e sensato, tracciano la mappa di un territorio esplorato nel tempo e nei modi della scienza e della rappresentazione, ma ancora da scoprire nelle sue intime peculiarità. Non a caso si parla, analogamente, di “atlante anatomico”, relativamente al libro contenente le tavole che ricostruiscono la traccia di quello che, da oggetto di analisi, diventa a tutti gli effetti soggetto che parla di se stesso, testo e segno di un vero e proprio sistema articolato. Il corpo come “libro” nasce concettualmente nel 1543 con la pubblicazione del “De humani corporis fabrica” di Andrea Vesalio. Precedentemente lo studio anatomico si rifaceva ad una conoscenza di carattere filosofico e l’indagine non costituiva una vera ricerca ma semplicemente un sussidio didattico basato sugli antichi precetti.


"Studi anatomici", © Maria Cristina Galli


L’innovazione di Vesalio è quella di riportare nel libro non solo il testo, ma la “scena” anatomica, la descrizione grafica di ciò che si vede; nella rappresentazione del celebre frontespizio di Oporino, sul tavolo settorio si distinguono chiaramente un calamaio, una candela, una penna e un foglio di carta. Quasi a sottolineare il ruolo dell’anatomista, che incide il cadavere ma è capace anche di leggerlo e di redigerne i contenuti. Grazie alla collaborazione con artisti dell’epoca il corpo si coagula in disegno, rappresentazione, e diventa fabrica in quanto immagine della sua struttura fondamentale. Prende posto nel libro, e successivamente si trasformerà in libro stesso; sarà cioè proprio il corpo, sezionato e analizzato, a dettare il testo. Con il suo gesto decostruttore, l’anatomia rappresenta un’intenzione in grado di aprire e ampliare i presupposti del linguaggio e la loro possibilità di relazione; si pone a lato dell’opera d’arte, e sposta ai margini della rappresentazione una sorta di domanda estetica, e perciò sensibile, che scardina gli assunti in cui si colloca l’opera tradizionale, in quanto “punto di arrivo” di ogni genio creativo.


In qualità di paradigma di ricerca, lo “sguardo” anatomico sottrae l’immagine agli spazi e alle convenzioni secondo cui la processualità è subordinata al risultato finale, dove il senso concluso dell’oggetto d’arte acceca il percorso di conoscenza. L’opera quindi non è più (o non è solo) traguardo; ma assume un valore irrinunciabile la soglia ove si può veder accadere il suo stesso divenire. Così, nel dispositivo anatomico l’immagine avviene, e in questo suo procedere avanza senza pregiudizi, mantenendo la propria singolarità e anticipando la scrittura del pensiero. L’anticipazione accumula nozioni, ragiona nel luogo della precedenza, dell’ora e qui, nel contesto oggettivo dell’elaborazione. Riguarda il gesto, la mano. La mano si avventura nel segno, accompagna il pensiero ma protegge la testa dalla de-finizione. Avanza nello spazio della rappresentazione e lo occupa, lo esperisce, prende contatto con ciò che deve conoscere senza riconoscerlo ancora.


"Croma - quaderno", © Maria Cristina Galli


Il sapere della mano è una conoscenza sensibile che si informa nel fare. Questo segno, tracciandosi, rivela la misura. Individua il limite, il terreno comune che lega e separa scrittura e immagine, disegno e parola. Definisce la mappa, il confine ove il pensiero mette in circolo le proprie strategie; esplora la contiguità che si offre al processo di in-formazione e, vincendo la propria resistenza, permette un continuo superamento del limite. L’atteggiamento anatomico altro non è che l’espressione di un’intenzione analitica senza alibi, tesa alla pura ricerca. Scorporare, sezionare, dettagliare, fanno parte dell’intenzione dell’anatomista e dell’artista. Nel processo creativo, pensiero e oggetto del pensiero stesso viaggiano di pari passo, si sollecitano a vicenda e occupano su piani intercambiabili lo spazio reale della rappresentazione. In una sequenza coordinata di segni si avvicendano più piani di lettura, e differenti possibilità di porsi nell’ambito dello studio.


“Progettare significa costruire il luogo della differenza, perché ciò che è solo possibile diventi reale.” Franco Rella. Il progetto in opera mette in atto un modello di ricerca in cui i frammenti dell’avvenire e del divenire si realizzano, si integrano, anche parzialmente. In questo meccanismo si realizza quindi una forma che assume l’aspetto di una totalità che è costituita di un insieme di presenze e di omissioni, un territorio di mescolanze e interferenze, di caso e di determinazione; in sostanza, un sistema. In cui il soggetto è agente e testimone al tempo stesso, in cui il viaggio trasforma il “dappertutto” di un paesaggio indistinto e senza norme, nel luogo in cui ci si può riconoscere. Si può paragonare il concetto di sistema a quello di giardino, a questa sorta di paesaggio nel paesaggio.


"Progetto per lo spazio mentale", © Maria Cristina Galli


Nella sua antica definizione, indicava propriamente l’”arte del luogo”, la capacità di rendere visibile il pensiero dal vuoto dello spazio. In persiano giardino significa Paradiso, rappresenta cioè il cuore della casa, il luogo della pace e della delizia. Anticamente, l’ora delle streghe non era la mezzanotte, ma, al contrario, il mezzogiorno, l’ora del delirio; quando la calura e la luce sono al loro culmine. Il giardino rappresentava il rifugio dalla follia. In questo spazio privato ove ci si prende cura di sé, è riflessa la nostra idea di territorio, la nostra immagine del mondo. È il micropaesaggio che creiamo quando ci lasciamo attraversare, quando lo sguardo comincia a pensare dentro le cose, quando volgiamo gli occhi al suolo e leggiamo dentro di noi.



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© Edizioni Archos

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