Redazione ArtApp
4 giorni fa
Photo © Aurelio Candido
Il campo, il bosco, e la roccia/ e i giardini sono sempre stati per me/ solo uno spazio/ e tu, mia amata, li trasformi/ in un luogo.
J. W. Goethe
Il mondo è fatto di eventi, non di cose. Tempo e spazio sono cose reali. Però non sono per nulla assoluti, per nulla indipendenti da quanto accade.
Carlo Rovelli “L’ordine del tempo”
Il luogo come spazio delle relazioni, dopo l’utopia: il luogo del bene, ma anche il non luogo.
Aristotele da, del luogo, una definizione precisa: il luogo di una cosa è il bordo interno di ciò che circonda la cosa, quello che le sta attorno. Cartesio non la vede esattamente così definendo il luogo come uno spazio matematico che esiste anche dove non c’è nulla, rendendo raggiungibile anche l’infinito in quanto successione di parti finite.
Per Aristotele lo spazio vuoto è un non senso: natura abhorret a vacuo (la natura rifiuta il vuoto) perché lo spazio è solo l’ordine delle cose.
La differenza è che Cartesio e Newton definiscono lo spazio in base alla sua dimensione e al suo tempo, mentre Aristotele per le cose che lì dentro accadono, e questo perché per i greci classici le cose non costituivano un fatto, ma un farsi. Le cose non sono: accadono.
Le contemporanee teorie quantistiche si occupano di dimostrare proprio questo: che le cose si modificano mettendosi in relazione tra loro al di là del fattore tempo che non costituisce una variabile speciale (equazione di Wheeler-DeWitt 1967).
Forse spazio e luogo non coincidono? Non parliamo della stessa cosa? Il geografo Franco Farinelli afferma che lo spazio esiste per le sue misure, ma cessa di esistere come tale e diventa luogo quando la distanza tra il soggetto e l’oggetto non è più misurabile e questo accade quando iniziano tra loro delle relazioni. Le relazioni a causa della loro qualità, accorciano o allungano le distanze tra soggetto e oggetto o meglio la loro distanza, anche senza movimento, cambia continuamente. Questo non riguarda solo le relazioni tra esseri viventi, ma anche con gli oggetti, gli odori, i rumori e i sapori in grado di rievocare emozioni di altre relazioni e quindi di altri luoghi. Relazioni che avvengono certamente in un tempo definito, ma indeterminabile perché modificato dai ricordi che sono in grado, a proprio piacimento, di modificare tempi e spazi. La memoria infatti è in grado di parlarci con un proprio linguaggio che va ben oltre lo scorrere del tempo e lo stratificarsi degli eventi.
Con i profumi e i suoni costruiamo le architetture invisibili che stanno dentro di noi e che rievocano altre relazioni, quindi altri luoghi, altre situazioni che abbiamo già vissuto o anche solo sognato e che la nostra mente rielabora in funzione dei nostri nuovi sentimenti e comportamenti. Se ne occupava nel 1957 il situazionista Guy Debord che con “The Naked City” ha elaborato una sorta di guida urbana psico-geografica che conduce il visitatore attraverso luoghi definiti in base a caratteristiche emozionali. Caratteri che restano impressi anche quando l’uomo non li abita più, perché quando uno spazio diventa luogo, per la memoria delle relazioni che in esso abitano, rimane tale per sempre. La sua rovina ha il potere di riconnetterci a un passato che dura nel presente attraverso le tracce di ciò che è stato, imponendoci continuamente la riflessione di questa connessione.
È incredibile come la potenza del luogo, la sua precisa competenza storica e semiotica, restino anche quando i secoli l’hanno disabitato e trasformato in rovina e questo perché con l’affettività che ad essi ci leghiamo, costruiamo e inventiamo i nostri segni identitari. La dimostrazione è la recente distruzione del sito archeologico di Palmira: una violenza apparentemente inconcepibile che gli viene rivolta martoriando la materia inerme, le pietre e gli oggetti -evidentemente solo apparentemente inoffensivi- dei suoi resti, attraverso i quali, si attua la narrazione dello svolgimento della storia.
Ecco che in questo diciannovesimo numero di ArtApp l’architettura diventa protagonista e inevitabilmente parleremo dell’architetto in quanto inventore di luoghi. Ognuno di noi costruisce i propri luoghi assieme ai propri sogni e ai propri incubi, ma per l’architetto farlo per gli altri è la sua professione. Disserteremo sullo spirito del luogo (genius loci) quel suo carattere identitario col quale venire a patti per un abitare rispettoso. Un approccio culturale e anche fenomenologico per il quale i cinesi antichi hanno elaborato un sofisticato sistema di studio dell’ambiente, il feng shui, nel tentativo di creare, attraverso il potere del mito, un’armonia tra le nostre vite e la realtà.Ma i miti trasmettono modelli di vita affrontando tematiche senza tempo e per questo necessitano di una continua e attenta vivificazione, attraverso un’attualizzazione della loro forma più che del loro significato. L’architetto, che non si occupa di cose in quanto tali, ma in quanto processi, soffre della dualità tra il pensiero empirico aristotelico e quello scientifico innescato da Cartesio, e a lui solo in parte si adatta la teoria dei quanti, perché l’architettura è vita della forma nella materia e il tempo ne è fondante parte costitutiva.
Se è vero che l’architettura non genera oggetti, ma genera processi vivi, l’asse estetico si sposta dall’oggetto al processo, cioè dal manufatto alla sua conseguenza, e quello spazio relazionale che si crea diventa fondante. Quel luogo, costruito per attivare un processo in grado di influenzare i comportamenti, nato attraverso un progetto (proiezione), per lo più visionario e quindi solitario, si arricchisce con la partecipazione della gente e il suo potere performante aumenta.
Il luogo può anche avere connotazioni non fisiche: i luoghi storicamente deputati alla socializzazione attorno a idee, ideologie, costumi e tradizioni stanno sparendo nella nostra società liquida e fluttuante. Le parrocchie, le Arci, i circoli culturali e politici stanno chiudendo, la gente si frequenta nel non luogo fisico per definizione: la rete. La rete ha accelerato ogni nostro comportamento e in essa le relazioni non si basano più sui messaggi fisici, ma su sensazioni immaginarie e immaginifiche. È l’immagine a determinare e a far accadere gli eventi. L’immagine diventa sempre più invasiva nella nostra vita. Le immagini stanno diventando luoghi, viviamo all’interno delle immagini e perdiamo il gusto delle relazioni complesse che hanno contraddistinto e regolato fin qui le nostre azioni, per entrare in una semplificazione dalla quale prima o poi sentiamo il bisogno di uscire con gesti drammatici e assoluti perché solitari e non sufficientemente mediati dal rapporto quotidiano con le persone.
Seicento anni prima di Cristo i greci avevano intuito questo rischio, condannando Anassimandro, che aveva rappresentato la terra in una carta geografica, non perché aveva osato vedere le cose dall’alto, prerogativa solo degli dei, ma perché con la mappa aveva ridotto la natura a un’immagine. La natura non è un insieme di cose rappresentabili graficamente perché è costituita da un insieme di processi in continua trasformazione. Anche i nostri luoghi sacri, i nostri luoghi di culto possono diventare virtuali? Il luogo di culto è là dove viene custodita l’identità di una comunità. Storia e memoria sono la sostanza dell’identità di una comunità. L’identità, come la storia e la memoria, non è un fatto, ma un farsi, un processo, una costruzione sempre nuova, anche se di una novità condizionata (A.Gargantini). Tutto questo ha bisogno dell’esserci fisicamente e questo perché un luogo non nasce sacro, ma lo diventa in funzione delle relazioni che riesce a creare e a custodire. Uno spazio diventa luogo sacro attraverso le relazioni che avvengono al suo interno ed è su queste relazioni che l’architetto deve riflettere quando pensa all’architettura di quel luogo.
I luoghi hanno un pensiero, una memoria. Si ricordano di tutto, come se fosse impresso nella pietra, più profondo dell’oceano più profondo… Forse è per questo che fotografo solo luoghi: non meramente per dare un’immagine scontata di essi, ma per appellarmi alla loro abilità di rimembrare, affinché non si dimentichino di noi.
Wim Wenders 2010.
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