L'architettura, tra il bello e il giusto
- Saverio Luzzi
- 9 apr
- Tempo di lettura: 7 min
Un'attenta riflessione sulla realizzazione di aree urbane come il Nuovo Corviale a Roma, le Vele a Scampia e lo Zen 1 e 2 a Palermo

Vele di Scampia, Napoli | Foto © Federica Zappalà
La discussione relativa ai concetti di estetica, bello e utile affonda le sue radici in molti secoli fa, in questa sede si accennerà solo ad alcune questioni partendo dal 1823, quando, nella sua celebre lettera sul Romanticismo a Cesare d’Azeglio, Alessandro Manzoni affermò come “la letteratura in genere debba proporsi l’utile per lo scopo, il vero per soggetto, e l’interessante per mezzo”, mostrando così di essere di fatto poco romantico e molto illuminista.
Giacomo Leopardi, che in nessuna categoria può essere incasellato, non era d’accordo: per lui l’utile risiedeva solo in ciò che poteva suscitare emozione, in ciò che era “dilettevole”. In altre parole, in ciò che era bello. La visione pedagogica della letteratura esemplificata dalla posizione di Manzoni non implicava però una negazione totale del bello: l’arte che non suscita emozioni non può essere ritenuta tale. La questione è un’altra: il bello diventava un elemento che poteva essere solo coprotagonista della cultura poiché il ruolo principale poteva essere interpretato unicamente da un altro elemento filosofico, il giusto, inteso non tanto come “legale” quanto come “rispondente a una legge morale superiore”.
L’anteposizione del giusto al bello è avvenuta anche nella storia dell’architettura italiana novecentesca, in modo particolare quando si è deciso di fornire ai ceti popolari strutture residenziali e urbanistiche in cui potessero vivere una vita degna di essere ritenuta tale. Sotto questo profilo risulta emblematica la realizzazione di aree urbane come il Nuovo Corviale a Roma, le Vele a Scampia e le Zone espansione Nord 1 e 2 a Palermo. I primi nuclei abitativi della Zen 1 sorsero a partire dal 1958. La costruzione delle Vele di Scampia iniziò nel 1962 per terminare nel 1975, mentre quella del Nuovo Corviale fu avviata in quell’anno per terminare, dopo varie traversie, nel 1984.
La progettazione di dette aree urbane fu opera di architetti aventi capacità straordinarie e unanimemente riconosciute: Vittorio Gregotti e, tra gli altri, Franco Purini per la Zen 2; Francesco Di Salvo per le Vele di Scampia; Mario Fiorentino e, tra gli altri, Michele Valori per il Nuovo Corviale. Oltre al talento, il fil rouge che univa questi uomini era la forte carica utopica dei loro progetti. Le realizzazioni cui ci si riferisce non prescindevano dalla dimensione estetica: specie nel caso delle sette Vele di Scampia, c’è infatti una ricerca del bello – non solo del funzionale – che ha ottenuto risultati difficilmente contestabili, rifacendosi in modo più o meno aperto a realizzazioni di Le Corbusier e Kenzo Tange. Non era però quella la molla prevalente che muoveva le intenzioni del talentuoso Di Salvo (1913-1977).
Egli voleva in primis che a Scampia gli spazi privati fossero minoritari e che le aree collettive fossero prevalenti in termini di estensione superficiale e, quindi, di ruolo. Come architettura comanda, Di Salvo intendeva determinare i comportamenti sociali di chi era chiamato ad abitare ciò che lui aveva progettato. Tale scopo era da raggiungere attraverso la realizzazione di un microcosmo ideale, una società ad altissimo valore relazionale in cui gli interscambi tra i vari soggetti fossero continui e prevalenti sulle dinamiche individuali o familiari. Mediante la pianificazione progettuale Di Salvo voleva costruire società con dinamiche che di solito, almeno in Italia, si sono realizzate attraverso la ridefinizione continua e spontanea dei ruoli e delle funzioni, non dopo la loro determinazione preventiva. Francesco Di Salvo voleva dunque il giusto prima del bello, il moralmente superiore più dell’accattivante (il quale, però, non era assente). Analogo discorso può essere fatto per l’operato di Mario Fiorentino (1918-1982) a Roma: il mastodontico Nuovo Corviale, il cui corpo principale misura 960 metri di lunghezza per 37 di altezza (sviluppati su undici piani), voleva essere la negazione del concetto di abitazione popolare così come era stata concepita fino a quel momento.
Questo idealtipo architettonico si staglia simbolicamente contro la città – verso cui si rivolge la facciata principale – e presenta una serie di servizi e spazi collettivi che guardano la campagna capitolina. Nelle intenzioni progettuali, il Nuovo Corviale era un quartiere di edilizia popolare (ne è proprietario lo Iacp, proprio come per la Zen 2) dotato dei requisiti fin lì negati a chi popolava le aree abitative destinate ai ceti meno abbienti: scuole, teatri, biblioteche, sala conferenze, area mercato, ambulatori e quant’altro.
Era un quartiere al contempo nella città (esso si trova all’interno del Grande raccordo anulare) e, come detto, contro la città. O, meglio, contro il modo capitalistico di concepirla. Il giusto del Nuovo Corviale è dunque eminentemente politico, desideroso di redistribuire alla collettività la ricchezza socio-culturale che i quartieri dormitorio le avevano sempre negato. Anche la storia delle Zen 1 e 2 di Palermo presenta la medesima matrice, cui si aggiungono peculiarità siciliane: il terremoto del Belice (1968) e la pervasività della mafia. Per Vittorio Gregotti (1927-2020), l’architettura era un’opera d’arte che, nel tradursi in realtà, doveva tenere conto del contesto in cui si inseriva.
La sua finalità era migliorare la realtà della società: proprio per questo un progettista non avrebbe potuto operare in modo corretto se non avesse conosciuto bene la storia del posto in cui agiva. Del resto, nel suo Il sublime ai tempi del contemporaneo (Einaudi, 2013), l’architetto novarese non aveva lasciato spazio a equivoci: considerare l’architettura come pratica artistica non esime certamente dalle responsabilità pubbliche che essa comporta. Gregotti aveva una visione marcatamente progressista e illuminista dell’architettura in cui il giusto predominava, pur all’interno di una lettura coltissima e altrettanto sofisticata che non prescindeva dal bello: essa – non poteva essere diversamente – si incarnò in toto nella realizzazione della Zen 2, un quartiere-modello destinato a ospitare 15.700 persone, oltre alle circa 7.000 della Zen 1.
C’è molto da rattristarsi nel vedere quale sia stata la sorte di queste tre aree abitative. Delle sette vele di Scampia, quattro sono state abbattute, due lo saranno appena i progetti in tal senso otterranno un finanziamento e solo una sarà riqualificata: quest’ultima, a quanto pare, ospiterà la sede della Città Metropolitana di Napoli. Per quanto concerne Nuovo Corviale, da anni si susseguono proposte più o meno ponderate di abbattimento: l’ultima è della Regione Lazio ed è dell’aprile del 2023. Cancellare le Zen 1 e 2 appare davvero difficile, ma anche qui le proposte di riqualificazione appaiono poco convinte.
Subito dopo la loro realizzazione – e a volte addirittura durante – tali insediamenti sono diventati l’esatto contrario di quello che i loro progettisti volevano: ghetti estranei ai contesti urbani in cui sono inseriti. Gli abitanti di queste zone sono divenuti per i loro concittadini dei paria da stigmatizzare poiché poveri e gretti. All’interno, in poco tempo gli spazi destinati alla socializzazione sono stati chiusi e di essi si sono impossessati a brandelli i singoli abitanti degli appartamenti. Si sono susseguite occupazioni non autorizzate che hanno dato luogo a comportamenti deplorevoli e all’insediamento di gruppi malavitosi di varia risma.
Un individualismo familista, maleducato, gretto e sguaiato ha cancellato ogni elemento pensato per la socializzazione, lordando in modo irreversibile ogni possibile proposito di sviluppo di un tessuto solidale. Ciò che si voleva cacciare dalla porta e che potremmo definire ingiusto, è rientrato dalla finestra consumando la più efferata delle vendette e ricacciando il tanto cercato giusto nel campo dei desideri. Su questo scempio di certo ha molto inciso l’incapacità (e la mancata volontà?) della politica di attuare tutte le indicazioni progettuali, ma ciò non spiega tutto.
Al di là delle ottime intenzioni, della preparazione culturale e della spinta morale di chi ha disegnato questi insediamenti, non possono non esserci dei punti deboli nei propositi dei grandi architetti sopra menzionati. Nel suo ultimo e densissimo – pur se non di agevole lettura – volume La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa (Feltrinelli 2022), Lucio Caracciolo afferma che la democrazia non può essere esportata con le armi o in nome di una legge morale superiore che noi occidentali pensiamo di avere. Ad avviso di chi scrive, nemmeno un tessuto sociale avanzato può essere calato dall’alto; esso si crea nelle coscienze di chi è chiamato a viverlo, altrimenti viene percepito come estraneo, elitista, inaffidabile e incomprensibile.
A ciò si aggiunga un elemento tutt’altro che marginale: queste aree abitative sono state progettate durante la stagione dell’impegno, ma la loro consegna è avvenuta negli anni Ottanta, in pieno riflusso, in un’Italia diventata rapidamente disillusa ed estranea a ogni idea di cambiamento socio-culturale. Nessun processo culturale può sperare di attecchire se non è preceduto dalla sensibilizzazione e dall’educazione. Il mezzo, in questo caso il manufatto edilizio, può molto, ma non tutto.
C’è poi un’altra questione di cui un architetto deve sempre tenere conto: la realizzazione di un progetto rappresenta non la fine del progetto stesso, ma solo della prima fase di esso. Un progetto si incarna poi nella realtà sociale e proprio per questo deve essere sempre riattualizzato e ricontestualizzato, per certi versi addirittura rifatto. Il lavoro di un architetto ha un inizio ma non ha è non può avere una fine. Proprio come un essere umano, un progetto ha una gestazione e una vita vera e propria. Ridurre l’architettura a ostetricia è operazione quanto mai dannosa.
Per chi in architettura crede nel giusto, lo spontaneismo è di solito un male da evitare. Eliminarlo era l’intenzione di chi ha voluto le aree di cui stiamo discutendo.
A Roma, Napoli e Palermo quello stesso spontaneismo è scomparso solo per un attimo per poi riapparire nella forma più deteriore possibile. A desiderarlo sono state proprio le persone che dovevano essere emancipate da esso. È stata una forma di difesa dalle prevaricazioni dei malavitosi ma è stata anche la conseguenza di quello che siamo soliti definire riflusso, di quel cambiamento del paradigma culturale e comportamentale che a partire dagli anni Ottanta ha modificato il nostro modo di essere.
L’individualismo è stato elevato a valore assoluto, con tutto ciò che poteva conseguirne, dai paninari e dagli yuppies rampanti di Piazza San Babila ai sottoproletari di Corviale. Ci si permetta il paragone storico piuttosto improprio: se l’architettura nelle vicende qui narrate ha pensato di essere la “propaganda del fatto” cara a Carlo Pisacane, a ucciderla sono state proprio le masse che essa voleva in un certo qual modo emancipare. Esattamente come accadde a Pisacane nel 1857. Fu vera gloria, dunque? Nelle intenzioni decisamente sì, nella realizzazione meno.
Questo per colpe diffuse e per dolo.
Il secondo – attribuibile alla politica – è ovviamente più grave delle prime, tuttavia limitarsi a esso non ci consentirebbe di comprendere tutto. Se un limite del tutto involontario nei progettisti c’è stato, è stato quello di non tenere presente che la ricerca dell’utopia è doverosa, ma che l’utopia fatica a diventare maggioranza, per cui mai può prescindere dal confronto con la realtà. È una questione dunque più politico-filosofica che estetica: è bene che il giusto non faccia a meno del bello, ma ancora di più non deve astrarsi dal reale. Giusto e bello coincidono quando sanno fare dell’utopia un piano condiviso. È una coincidenza difficilissima da realizzare, ma proprio per questo necessaria.