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Matteo Berra

La luce, lo spazio e la forma

Colore e scultura hanno valori di partenza in contraddizione. La scultura si presenta nello spazio e nella luce. Il colore rappresenta, racconta una luce e uno spazio


"Maldoror", 2016 | © Matteo Berra


Il rapporto tra scultura e colore si gioca su un filo, come la preparazione della maionese: se va male è un disastro. Altrimenti è una delizia, ma comunque è meglio non esagerare. Il problema è che linguisticamente appartengono a due approcci contrapposti. Colore e scultura hanno valori di partenza in contraddizione. La scultura si presenta nello spazio e nella luce. Il colore rappresenta, racconta una luce e uno spazio. La scultura è forma ed esiste nella misura in cui la luce varia su di essa. Sfumature e accostamenti di colore riproducono invece una illuminazione. Il colore appartiene al mondo grafico immateriale del segno; è un segno esteso ad una superficie. Quindi la forma è un supporto anomalo per il colore, il quale a sua volta tradisce la forma.


La finestra narrativa del segno predilige il supporto piano, perché non interferisce con l'illusione della finestra della rappresentazione. Una scena in un quadro risulta di più facile lettura che non dipinta su una colonna, dove per cogliere l'insieme dobbiamo girare intorno. Al contempo il colore apposto sulla forma crea una difformità tonale sulla distribuzione della luce sulla superficie, senza che la forma cambi veramente, creando quindi un piccolo paradosso. Naturalmente questo manda in scacco solo chi si pone un po' troppi problemi. Le teorie non hanno certo fermato l'infinita produzione di Cristi lignei medioevali, per citare un filone molto popolare. Pelle, capelli, drappi e panneggi, ferite e sanguinamenti, tutti dipinti, rappresentando le varie sostanze, delimitando superfici distinte.


"Maldoror", 2016 | © Matteo Berra


Per motivi più radicali che affronterò a breve, la colorazione delle superfici scultoree è una soluzione vista con sospetto, che rischia sempre di venir liquidata con l'etichetta di “Decorazione”, vizio capitale imperdonabile nell'etica dell'estetica moderna. E come tale rischiano di venire etichettati tutti gli espedienti che interrompono lo svolgersi unitario della forma, anche quando risolti cambiando materiale, sfruttando per esempio le cromie di marmi diversi o rivestendo d'oro i dettagli dei bronzi. Non è un caso che venga tollerata in manifestazioni plastiche definite secondarie rispetto alle arti maggiori, quali appunto la scultura lignea, o la produzione ceramica. È interessante notare come questo coincida anche con il costo e la durevolezza nel tempo del materiale, rispetto al marmo o al bronzo. All'origine di questa crociata purista c'è, con grande ironia della sorte, un meraviglioso errore di ignoranza, o meglio di difficoltà di conoscenza.


Infatti nella nostra cara Europa, scultura era sinonimo di statuaria: i marmi bianchi greci, o meglio le loro copie o imitazioni romane che vennero sparpagliate in tutte le piazze dell'impero. In questo gioco di chi copia chi, i vivi che guardano ai romani che guardavano ai greci, il telefono senza fili dimentica un piccolo dettaglio, cancellato dal tempo e dalla memoria. Le statue greche erano dipinte, policrome, decorate. Ma nei secoli l'Europa si innamora del bianco, della forma che fluisce e descrive con il proprio alfabeto puro il mutare della natura delle sostanze rappresentate. Un materiale solo: per le carni, per le corazze, per i sandali di cuoio. Ci si commuove a sentir frusciare le foglie di marmo o persino i veli sui volti immobili. Quale atrocità sarebbe il dipingerli, pensando di renderli più veri. I greci lo fecero, noi non lo abbiamo scoperto che troppo tardi, quando ormai avevamo già deciso quale era la scultura migliore, quella della forma.


"Maldoror", 2016 | © Matteo Berra


Questa suggestione si storicizza e va a definire l'iconografia ufficiale della scultura, che quindi è la statuaria bianca o in bronzo: senza inganni, senza interferenze. Da un punto di vista linguistico è vero. Difficile competere con l'esattezza scientifica dell'esercizio della forma sufficiente a se stessa, libera di avventurarsi nello spazio e raccontarsi. Il fine però non è il mezzo, non si scrive per la buona lingua, ma per cercare la poesia e chi dice che coincidono, mente ignorante. Unica regola, nessuna regola: quindi la pratica della scultura vede colore e forma intrecciati in mille soluzioni, con amanti e detrattori. La scultura poi non racconta più, ma installa, assembla e presenta oggetti: è il reale che presenta il reale, servito crudo, tale e quale. Quindi il colore non rappresenta una luce altra, la scultura non racconta, sono nello stesso luogo, nello stesso tempo. Il conflitto è risolto e l'altrove è morto. Oppure la scultura rinuncia, si lustra e riflette, si fa specchiante. Il colore è quello cangiante del mondo che passa di fronte. Soluzione scintillante, affascinante, in cui la forma rischia di scomparire, divenuta mero schermo di proiezione.


Personalmente ho percorso questa strada, avendo l'accortezza che la superficie fosse attraversata, interrotta, da linee, segni che rendessero la forma visibile anche dietro lo specchio. Oppure ho verniciato, ma con un colore che è uno e trino. Colore che cambia colore, gioca con la luce, ma oltre i toni dell'ombra. Le ombre sono finalmente colorate, ma tra le pieghe di una scultura. Chissà cosa ne direbbe Monet.

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© Edizioni Archos

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