Redazione ArtApp
4 giorni fa
Abbazia di Sant'Antimo, Montalcino (SI) | Foto di Aurelio Candido
“Se in un bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura”.
Adolf Loos, Parole nel vuoto
Quanta differenza tra l’umile piramide di terra descritta dal maestro viennese e le architetture contemporanee che brillano per tecnologie e materiali, ma non esprimono quel carattere evocativo di cui tratta György Lukács nella sua “Estetica”, non riescono a rappresentare la memoria di un evento, di un accadimento, dando carattere a un luogo in rapporto al contesto in cui è inserito. Risultano paracadutate in un sito e si caratterizzano al massimo per forma e bellezza. Questa riflessione rimanda all’analisi che Aldo Rossi, ne “L’architettura della città”, libro che negli anni ’60 ha cambiato il corso dell’approccio teorico all’architettura orientando il lavoro nelle università italiane e europee, dedica al concetto di “locus”, descritto come rapporto singolare tra architetture realizzate e riconoscimento da parte di una comunità. Si tratta della capacità che hanno determinate costruzioni, con carattere di opera d’arte, di rammemorare, in un punto della città o del paesaggio, un evento o un rito o un mito, di intrecciare saldamente discipline come l’architettura, la psicologia, l’antropologia.
Cappella del Sacro Monte di Orta (NO)
La collettività esprime sempre un proprio sistema di valori, la propria tradizione, sancita da significati, da valori e da miti collocati nella sfera rituale del sacro: l’architettura è preposta a rappresentarli. Se un tempo erano quelli descritti da Claude Lévi-Strauss in “Tristi Tropici (1960)”, oggi potrebbero essere quelli individuati da Marc Augè in “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (1996)” oppure in “Un etnologo nel metrò (2005)” o “Il bello della bicicletta (2009)”. Tornando al contributo intellettuale offerto da Aldo Rossi, nelle sue descrizioni di luoghi connotati da una architettura “rituale”, perfettamente inseriti nel paesaggio, uno ricorrente è costituito dai “Sacri Monti”: «Un Sacro Monte è un complesso devozionale posto sul versante di una montagna con una serie di cappelle o edicole in cui vi sono rappresentate, con dipinti e sculture, scene della Vita di Cristo, di Maria o dei Santi. Riproposizione della Nuova Gerusalemme, i Sacri Monti offrivano la possibilità ai pellegrini di visitare i Luoghi Santi con la riproduzione, in scala minore, degli edifici in cui si era svolta la Passione di Cristo. Essi sono collocati su di una altura elevata, in una posizione appartata rispetto al centro urbano, in un ambiente più naturale, e vi si giunge prevalentemente mediante un pellegrinaggio.» (Amilcare Barbero, ATLAS, Convegno Internazionale "Religioni e Sacri Monti"; Supplemento n.2 al n.137 di Piemonte Parchi - giugno/luglio 2004).
Sacro Monte di Varallo (VC) - Cappella di Adamo e Eva
Altri luoghi rituali, devozionali e mitici possono essere individuati nella Scala Santa presso San Giovanni in Laterano (va salita in ginocchio) oppure nella Santa Casa di Loreto (qui occorre berne la polvere sciolta in acqua, in un corpo a corpo con il sacro), e ancora la “Casa della Santarella” nella chiesa di Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe a Napoli, dove migliaia di donne accorrono da tutto il mondo sperando nel miracolo della fertilità. “Prima o poi i neuroscienziati che studiano l’effetto placebo ci diranno come e perché tutto questo avviene.” (Marino Niola, “La Repubblica”, 18 settembre 2017). Il “locus” non è connotato solo dal rapporto tra architettura e devozione popolare, può rivestire il ruolo di “macchina della memoria e del tempo”, un'architettura nella quale sono incastrati pezzi di preesistenze capaci di rimandare il pensiero al passato, magari per la costruzione di un avvenire più consapevole e quindi migliore.
Interno della Chiesa di S. Nicola in Carcere, Roma
Tutte le architetture cosiddette di spoglio risultano essere un creativo riassemblaggio di frammenti archeologici ritrovati sul sito al momento della (ri)costruzione: la chiesa di S. Nicola in Carcere, eretta a Roma intorno al VI secolo, sui resti di tre templi dedicati a Giunone Sospita, Giano e Spes; la villa di Glienicke, progettata da a Potsdam, nelle vicinanze di Berlino, con i frammenti lapidei che ornano il muro di un padiglione laterale; in Abruzzo, la chiesa di San Giovanni in Venere sul sedime di un tempio romano, costruito presumibilmente nell'80 a.C. e dedicato a Venere Conciliatrice, dea il cui nome ha ibridato la titolazione della basilica cristiana. Ma anche edifici non così architettonicamente e storicamente caratterizzati possono connotare un luogo: è il caso del cinema-teatro Michetti a Pescara, con qualche modesta decorazione liberty in facciata, molto modificato all’interno nelle varie ricostruzioni che ne hanno connotato il percorso storico.
Già ai primi anni dell’800 la vecchia Pescara vantava una specie di teatro all’interno dell’ospedale militare di S. Giacomo. Una sala stretta e lunga, dal soffitto basso, con un povero palcoscenico costituito da alcune tavole che lo staccavano da terra e la platea che si tramanda fatta da panche e sedie prese in prestito dalle scuole. Nel 1874 divenne praticabile un’area per spettacoli all’aperto gestita da alcuni imprenditori privati, all’angolo tra le vie G. D’Annunzio e Conte di Ruvo, il cosiddetto Politeama Aternino: il mito recita che alcune vele prese a prestito dalle paranze, caratteristiche imbarcazioni medio-adriatiche, offrissero ombra e una sensazione di riparo. Nel 1907 tale Donato Verrocchio fu autorizzato a completarlo, ma chi poi lo riprogettò e lo costruì più capiente e decoroso e più adeguato all’importanza della città fu Antonino Liberi, cognato di Gabriele D’Annunzio, artefice di molti progetti dei primi decenni del Novecento: l’incarico lo aveva ricevuto da Vicentino Michetti, cui si deve ancora la titolazione attuale del cinema-teatro ricostruito nel dopoguerra dopo che quello originario, con le caratteristiche tipiche del teatro all’italiana, era stato distrutto alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La sfida lanciata cinquanta anni fa da Aldo Rossi alla cultura architettonica, sulle tracce degli studi di geografi, psicologi e antropologi, non è solo saper riconoscere, nelle città, dei luoghi che le rendano opera d’arte e macchine della memoria e del tempo, ma, compito ben più difficile, costruirne di nuovi, lanciati nel futuro ma ancorati alla tradizione e alla storia.
“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal Paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”
Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia
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