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"Life in a day”: analisi di un esperimento imperfetto

Paolo Timossi

Ardito collage di 80mila ore di filmati amatoriali inviati da utenti sparsi in tutto il mondo e girati nell’arco di una sola giornata, il 24 luglio del 2010



Nel lontano 2011 usciva nelle sale il documentario “Life in a day”, ardito collage di 80mila ore di filmati amatoriali inviati da utenti sparsi in tutto il mondo e girati nell’arco di una sola giornata, il 24 luglio del 2010. L’idea bizzarra, promossa dalla piattaforma YouTube per celebrare i suoi primi cinque anni di vita, mirava a coinvolgere i propri users nel processo di creazione di un prodotto collettivo e trasversale.

 

La pretesa ultima, stando alle parole del regista Kevin MacDonald, sarebbe stata quella di comporre un’opera partecipata, che restituisse un’idea di fratellanza e universalità. Sullo schermo si susseguono così scene di vita quotidiana, filmate amatorialmente da centinaia di “registi per un giorno” provenienti da ogni parte del mondo. I filmati grezzi, assemblati fra loro attraverso un montaggio a dir poco virtuoso, aspirano a ritrarre il flusso della vita, allegoricamente ridotta allo spazio delle ventiquattrore che separano un’alba dalla successiva.

 

A distanza di quindici anni e numerosi remakes (tra cui anche uno italiano, non certo imperdibile), vale la pena riflettere sulle implicazioni culturali che il documentario continua a suggerire. Non può non sorprendere infatti l’innovatività dell’operazione di Mac Donald, che in tempi ancora non sospetti realizzò un prodotto estremamente compatibile con le tendenze culturali e tecnologiche del nostro tempo. L’idea di creare un’opera attingendo da un repertorio potenzialmente infinito di materiale audiovisivo si poneva come un’intuizione anticipatoria, se non addirittura profetica delle dinamiche mediali attuali. Dinamiche per le quali la cultura di tutti i giorni, la caotica cultura dei social media, diviene oltremodo frammentaria, disgregandosi in un flusso eterogeneo di contenuti digitali.

 

Ciò che Mac Donald aveva intuito, in altri termini, è che la rappresentazione umana della vita avrebbe assunto, almeno dal punto di vista mediale, forme sempre più disorganiche e non strutturate. A testimonianza di ciò, basti considerare che in “Life in a Day” le centinaia di filmati sono montati in modo piuttosto confuso e arbitrario, senza che emerga una struttura narrativa tangibile. E forse l’idea di universalità che il prodotto vorrebbe suggerire altro non è che il risultato di questa scelta, come se la totalità delle cose fosse rappresentabile solo attraverso la messa in scena dei suoi elementi più frammentari e insignificanti. Tante piccole parti che si fanno portavoce di un idealistico “tutto”.

 

Questa scelta (non) narrativa viene ulteriormente consolidata dall’assenza di una voce narrante, che forza il fruitore in un costante stato di spaesamento. Il regista rinuncia dunque al linguaggio verbale per meglio evidenziare l’impatto del linguaggio visivo. La potenza evocativa dell’immagine si sostituisce alla parola, pretendendosi sufficiente a sé stessa, e contribuendo, almeno nelle intenzioni, alle pretese di verità del documentario.


E tuttavia, se osservato da un’altra prospettiva, il lavoro di Mac Donald si rivela meno solido di quanto si potrebbe pensare. Ad uno sguardo più disincantato, questa aspirazione a ritrarre la realtà e la totalità delle cose appare niente più che una ambizione illusoria. Un abbaglio tanto audace quanto ingannevole.

 

Paradossalmente, è proprio l’assenza di una linea narrativa “artefatta” a far cadere le pretese di verità del documentario. Ritenere che la messa in scena di video reali sia sufficiente a restituire un’idea di autenticità è un’azione imprudente. Al contrario, la verità nei lavori di narrativa è solita emergere dalla finzione. È proprio attraverso la costruzione del racconto che l’uomo diventa capace di restituire un senso alla realtà circostante, o quantomeno di individuarne delle chiavi interpretative. Con ogni evidenza, Mac Donald ha sottovalutato il potente mezzo della metafora, l’unica falsificazione in grado di dire la verità.

 

Di più, dal documentario emerge l’idea di un’autorialità condivisa e partecipata: tutti possono contribuire, ognuno a suo modo, alla produzione di un oggetto culturale. L’autore non perde l’aura, ma se ne disfa volutamente, e la redistribuisce in parti eque tra i comuni mortali. Tutti i punti di vista divengono così egualmente significativi, e nelle intenzioni del regista, questo sarebbe bastato a fare di “Life in a day” un’opera universale. Ma in questo modo l’intento di Mac Donald si tradisce da solo. Il tentativo di rendere il banale universale comporta inevitabilmente l’abbassamento dell’universale al livello del banale. MacDonald e altri come lui inciampano nel paradosso della democratizzazione dei media, che rende la produzione culturale (finalmente) accessibile a tutti, costringendola allo stesso tempo in un limbo di inevitabile superficialità. Con le dovute eccezioni, ovviamente.

 

“Life in a day” resta, ciò nonostante, un esperimento intrigante, che ha saputo offrire spunti di riflessione profondi e sollevare interrogativi ancora oggi irrisolti. Un’opera che ha inaugurato un nuovo modo di concepire “il racconto” documentaristico, e che continua a dividere la critica e il pubblico, entrambi smarriti d’innanzi alle spinte contrastanti dell’ortodossia e della sperimentazione, al fuoco eternamente incrociato della conservazione e della novità.

 


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