Nomadelfia, di Enrico Genovesi
Come raccontare un’utopia? Il fotografo Enrico Genovesi ha visitato Nomadelfia e ne è uscito un reportage di grande impatto emotivo
Foto © Enrico Genovesi
In Maremma batte un cuore grande, dove solidarietà e compassione non sono utopie. Qui, una piccola comunità vive nell’insegnamento e nella pratica più profonda del Vangelo, coniugando i bisogni del reale con le aspettative della fede. Il suo nome è Nomadelfia. Non esiste proprietà privata né circola denaro, tutto è condiviso secondo le necessità dei gruppi familiari, offrendo a tutti ciò di cui si ha necessità nel segno della sobrietà. A Nomadelfia, nome inventato dal fondatore circa 70 anni fa, don Zeno Saltini (1900-1981), la “fraternità è legge” (dal greco “nomos” e “adelphia”) sono state superate le più profonde contraddizioni all’interno della società secolare e che la civiltà cristiana, nei valori su cui si fonda l’Occidente, non ha saputo sciogliere.
Foto © Enrico Genovesi
Qui questi nodi sono stati valicati in nome della fraternità e dell’accoglienza, e termini come “generosità” e “condivisione” hanno un potere non negoziabile, al riparo dalla corruzione dei valori che agita la società contemporanea. Nel cuore della Maremma l’utopia è viva, e anima i corpi delle cinquanta famiglie che compongono Nomadelfia. Il fotografo Enrico Genovesi ha visitato Nomadelfia e ne è uscito un reportage di grande impatto emotivo. Come raccontare dunque un’utopia? Le fotografie di “Nomadelfia”, questo è anche il titolo della serie, ci illustrano un microcosmo così distante da apparirci vicino, prossimo a noi e alle nostre abitudini; il lavoro, la famiglia, lo svago, la stessa vita ci appare conforme alla nostra ma le differenze sono moltissime e risiedono nella mutualità dei rapporti umani cancellati dall’indifferenza nel mondo cosiddetto secolare. La gran parte delle fotografie, come notate, è dedicata ai bambini e agli adolescenti. Essi sono figli naturali delle coppie che risiedono a Nomadelfia ma non solo.
Foto © Enrico Genovesi
Nata per dare una famiglia ai bambini che una famiglia non l’avevano perché orfani o abbandonati a causa dell’indigenza dei genitori naturali, Nomadelfia dedica una particolare attenzione all’educazione dei bambini offrendo loro una famiglia grande quanto la comunità stessa e non c’è nessuna differenza tra figli naturali o in affido. Nessuna. Nelle fotografie di Genovesi li vediamo nel pieno di ogni loro attività, allo studio, al gioco, nei momenti di condivisione: tutti vivono insieme e gioiscono insieme, crescono insieme. È lo spirito di una comunità che si riconosce in se stessa; e dove tutti concorrono alla sua crescita in funzione delle proprie capacità. Genovesi ci racconta il quotidiano. Le immagini scorrono con la stessa fluidità della vita comunitaria che si apre alla nostra sorpresa ponendoci di fronte a una domanda, la più grande fra tutte quelle che l’uomo sa darsi: stiamo vivendo la vita che avremmo voluto vivere? Non lo sappiamo. Quello che sappiamo però è che un’alternativa non solo è possibile. ma è pure dimostrata.
Foto © Enrico Genovesi
Pensiamo al nostro rapporto con il lavoro: se esiste – come è stato affermato – una colpa dei cristiani essa consiste nell’aver progettato una “civiltà cristiana” senza aver versato amore cristiano nel rapporto di lavoro. In questa assenza appare l’abbraccio mortale non soltanto tra capitale e lavoro ma anche tra razionalità e fede. A Nomadelfia si esce da questo abbraccio, la forbice così nota a tutti noi, rappresentata nel rapporto impegno-retribuzione è cancellata, disinnescata e dunque tutto diviene ripetibile, imitabile e dunque predicabile. A Nomadelfia il Vangelo è materia viva. Genovesi lo sa, lo ha visto dilagare come un fiume fuori dagli argini e lo ha tradotto per noi nelle sue fotografie, con quel pudore che sta nella sensibilità di chi vuole capire e poi spiegare, come nella migliore tradizione del fotogiornalismo.
Foto © Enrico Genovesi
E infatti, fotografia dopo fotografia, nella rappresentazione minimale così simile alla vita comunitaria cogliamo una precisa assonanza, una felice convergenza tra la realtà e la sua restituzione, come se Genovesi avesse voluto privilegiare una “filologia dell’immagine” alle suggestioni personali – che pure ci sono, seppure tenute a bada. “Nomadelfia” di Genovesi è un lavoro sobrio e disturbante, come si conviene a tutti i lavori che sanno comunicare, che trasporta e commuove. Con delicatezza, quasi in silenzio. E una volta a conoscenza di un mondo solidale, accogliente, così lontano da tutti noi, non possiamo non intenerirci di fronte alla foto in cui il ragazzo sullo scuolabus ha sul volto il riflesso dei rami d’un albero che come una filigrana, sottile e minuta accorre a disegnare un mistero; il solito, grandioso, quello della vita.
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