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Michele Manigrasso

Quando l’anima della terra canta la libertà

Il progetto di Renzo Piano per il Centro Culturale della Fondazione Stavros Niarchos di Atene


Centro Culturale della Fondazione Stavros Niarchos, Atene. Vista del canale, verso la città Fotografie © Michele Manigrasso


L’architettura è l’espressione di una grande responsabilità, perché ha dirette conseguenze sulla qualità della vita delle persone che la abitano. E nei momenti di difficoltà, di crisi, come quello che stiamo vivendo, l’architettura può contribuire alla costruzione di condizioni favorevoli al benessere. Curando la città, si interviene sullo stato di salute del cuore di noi individui. Ed è proprio nei momenti di difficoltà che si può fare la differenza. Per esempio, l’Empire State Building, il grattacielo più alto al mondo fino al 1969, fu messo in cantiere nel 1929, nel pieno di quella che è passata alla storia come la “grande depressione”.


Ad Atene, è stato lo stesso. Non solo perché il progetto di cui si scrive ha dato lavoro a 1500 persone, ma soprattutto perché un paese ha bisogno, oltre a tutto il resto, di speranza, di luoghi di incontro in cui coltivare lo scambio e la bellezza. Quell’idea di bellezza che non è solo estetica ma che tiene insieme anche il buono: per esempio, il valore morale ed etico della libertà, che in momenti di forte fragilità assume un significato ancor più profondo e urgente. Così, è nato il Centro Culturale della Fondazione Stavros Niarchos ad Atene, un progetto di Renzo Piano, che aggrega tante funzioni diverse e che lo rendono vivo.


Vista del canale dalla rampa che conduce alla quota superiore del parco


La fondazione, che porta il nome del celebre armatore greco, è una delle più importanti organizzazioni filantropiche al mondo, impegnata in numerosi settori come le arti, la scienza, l’educazione, lo sport, il benessere sociale. Dal 1996 ha messo a disposizione più di 2.6 miliardi di dollari ad oltre 4.300 organizzazioni no profit in 124 paesi del mondo. Ad Atene, ha finanziato (per un importo di 600 milioni di euro) il centro culturale omonimo, progettato dal 2008 al 2011, costruito dal 2012 al 2016, inaugurato nel 2017, e che oggi si riconferma come spazio pubblico di grande successo, massima espressione della contemporaneità della capitale greca.


In un periodo particolare per il paese, in piena crisi economica, quest’opera di Piano ha rappresentato la resistenza, il tentativo di risollevarsi e provare a costruire un futuro diverso. In origine, si trattava di un grande terreno vuoto della periferia di Atene, posizionato proprio di fronte al Falero, il primo porto di Atene, poi abbandonato e trasformato nei secoli in un sobborgo della città. Il quartiere è il Kallithea, che in greco vuol dire “bella vista”. Ma il bel panorama era sparito da un po’ di tempo: il quartiere e il mare erano stati separati da un’autostrada che corre tra il sito e il vecchio porto. Il progetto ha assunto il compito di risolvere questa distanza, muovendo la terra e salendo in altezza. In effetti, il primo gesto è stato topografico: era necessario sollevare il terreno e disegnare un parco inclinato, che partendo da terra avrebbe conquistato la vista del mare.


Gli spazi di distribuzione della biblioteca


Senza neanche accorgersene, i visitatori, percorrendo questo spazio lievemente in pendenza, si sarebbero trovati a un’altezza di trenta metri. Dall’alto della “collina” avrebbero scoperto una nuova spazialità, senza confini, e il rapporto con il mare messo in discussione da decenni di scelte urbanistiche errate. Voltandosi indietro, avrebbero ritrovato la città, bianca, orizzontale, complessa, quasi organica, mediterranea. La realizzazione non ha tradito alcun obiettivo preventivo; la sintassi del progetto è molto chiara nella sua continuità, accentuata da parti riconoscibili e distinguibili. Sotto la crosta trovano spazio gli edifici. La Biblioteca Nazionale, che con i suoi 24mila mq di superficie, è in grado di accogliere 2 milioni di volumi; è anche pubblica, quindi, aperta a tutti i cittadini; sviluppata su più livelli, con sale lettura disposte intorno a un corpo centrale cubico che è il “castello di libri”, nucleo strutturale e simbolo dell’edificio.


Vi sono, inoltre, spazi per l’infanzia, studi di registrazione musicale, un business center per corsi di formazione per la gestione dell’impresa; una parte dedicata alla ricerca, costituita da sale riservate ai ricercatori per la collezione di manoscritti antichi. E poi, il nuovo Teatro dell’Opera Nazionale: include un teatro principale da 1400 posti, che riprende la conformazione classica del teatro all’italiana a ferro di cavallo, e una sala sperimentale da 400 posti, in cui le sedute possono scomparire per lasciare spazio ai danzatori. Il terzo elemento è la piazza, chiamata agorà, un quadrato pavimentato di 40 m per lato – una sorta di frattura regolare della crosta abitata - dal quale si accede agli edifici attraverso due ingressi: quello a monte conduce alla biblioteca che si trova allo stesso livello, ed è quindi immediatamente accessibile, e quello a mare che permette di entrare nel teatro.


Vista del belvedere sospeso


Affianco alla piazza e alla grande piega di suolo, vi è la vasca d’acqua, un canale largo 30 metri e lungo 400, profondo 150 cm, che accoglie chi arriva dalla città. Non è ancora il mare, ma un suo avamposto. La vasca contiene acqua marina che viene pompata dal golfo e filtrata; e si può percorrerla in barca a vela. A concludere l’opera vi è la presenza di un enorme parco che circonda l’intero edificio, facendogli anche da copertura. Deborah Nevins e Helli Pangalou sono state le paesaggiste che hanno progettato questo parco mediterraneo, come sistema non solo unificante ma anche protettivo. Ad Atene, dove le radiazioni solari sono molto forti, gli edifici hanno bisogno di una certa riparazione. Per questo, la crosta di terra protegge e regola climaticamente gli ambienti sottostanti. E sempre secondo questa logica, al culmine del parco si incontra il grande “tappeto volante”.


Non solo una enorme superficie in ferrocemento, un corpo unico, un monolite per catturare il sole, sorretto da 30 sottili colonnine di acciaio, ma anche una grande ombra dove ripararsi. Una copertura quadrata di 100 m di lato, che vola a 17 m dalla collina. Sotto la copertura vi è la lighthouse, ovvero una stanza di vetro che guarda il mare e verso la città: è la principale stanza di lettura, uno spazio aggregante che è parte della biblioteca, della collina, del panorama, sta nel paesaggio, lo guarda, lo ascolta in silenzio. È il contraltare dell’agorà: se l’agorà è il luogo dell’incontro a terra e che smista i flussi tra spazi interni ed esterni, la lighthouse è una piazza alta che domina la vista sul pezzo di mondo che le è intorno. Indirizza lo sguardo verso la città, dove vive l’uomo, e verso l’orizzonte poggiato sul mare, dove corrono le sue speranze. Il centro culturale della Fondazione Stavros Niarchos è un edificio costruito come una “macchina per la cultura”: come tale, stabilisce forte relazioni con il paesaggio in cui è inserito, come se fosse sempre esistito, lì, tra città e mare, tra terra e cielo.


Vista del parco, dalla lighthouse verso la città


A proposito di questo suo progetto, il maestro Piano, qualche anno fa ha dichiarato: «Qui con il teatro, la grande biblioteca, la piazza aperta e il parco, il risultato è garantito […]. L’architettura non deve essere un gesto, ma deve servire a fare stare insieme la gente». A volte si tratta di investimenti colossali, come in questo caso: «Ma il rendimento sociale, nel tempo, è enorme». Noi architetti non possiamo certo avere la pretesa di pensare il nostro lavoro come attività sufficiente a costruire la felicità, ma sicuramente abbiamo il dovere di provare a tessere spazi confortevoli, adatti al nostro essere umani, che facilitino lo scambio, le relazioni, le condivisioni; luoghi che fecondino i rapporti tra persone che si incontrano anche senza uno scopo preciso.


Oggi, questo deve passare anche e soprattutto attraverso una diversa attenzione alla questione ambientale, alla cura del suolo, alla riscoperta della città come habitat socio-ecologico in cui si vive in armonia con le leggi della natura, assecondandole. Siamo, in altre parole, i direttori d’orchestra di quel canto libero che viene dalla terra, dalla sua anima. Quel canto che sussurra di bellezza, non intesa come reliquia protetta sotto una campana di vetro, ma come quell’insieme di valori condivisi che fanno eco nel paesaggio che abitiamo e di cui siamo parte attiva.

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© Edizioni Archos

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