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Matteo Berra

Un oceano di silenzio

La scultura è una macchina linguistica, che percorsa dalla sguardo, conduce il pensiero in luoghi e tempi altrimenti inaccessibili. E questo avviene in silenzio


"Deposizione" 2021 © Matteo Berra | Acciaio inox 180x80x70 cm.


Uno dei ricordi più cari della mia formazione universitaria è il ritorno in pullman da una manifestazione che tenemmo a Roma, con i colleghi del Conservatorio “Giuseppe Verdi”, per richiedere una riforma delle nostre istituzioni educative, regolate da norme comuni ferme al ventennio. Il viaggio di andata si era svolto nel silenzio, si dormiva infatti viaggiando di notte. Ma c'era anche diffidenza. Brera e Conservatorio non condividono i medesimi valori in termini di socialità, igiene personale, volume delle risate e propensione al dare una mano coi lavori pesanti. Il viaggio di ritorno si svolse in tutt'altra atmosfera. In 24 ore avevamo scoperto di essere tutti appassionati della vita.


In piazza Navona erano sfilate soprano accompagnate da djembe molto poco addomesticati mentre davanti a palazzo Madama un quartetto da camera accompagnava un portatore sano di dreadlock che si esibiva sputando fuoco. Avevamo tutti svestito sospetti e preconcetti e ci eravamo ritrovati entusiasti commensali di un baccanale strabordante ed anarchico. Il viaggio di ritorno fu un carnevale. Gente d'ogni assortimento che ballava nel corridoio del pullman, cori, canti, contro canti e madrigali. In questo putiferio, qualcuno si fa avanti fino alla prima fila ed invita a partecipare al karaoke quello che allora era il mio docente di scultura. Stampo dell'ottocento, mai incline allo scomporsi, voce grave, barba bianca. Declinò sicuro l'invito con un consapevole e compiaciuto: «Ho scelto un'arte silenziosa.»

Quella frase, come altre cose di quel docente, mi è rimasta impressa. Vi è un senso di austerità, che non è rinuncia, ma giustezza. Appartiene a quelle ovvietà che stupiscono quando espresse, come certi scorci al fiume. C'è anche chi questo rapporto lo viveva come una condanna, se vogliamo dare credito al leggendario: “Perché non parli!” accompagnato da martellata sul ginocchio di una pietra a forma di Mosè, sferzato da un delirante Michelangelo. Vero o meno, è interessante che si richieda la rottura del silenzio al freddo marmo, quando forse ci si sarebbe aspettati un più biblico “Alzati e cammina!” come prova del potere del maestro di infondere la vita nel minerale. Molto umilmente dissento col Buonarroti della leggenda e mi pascio dell'oceano di silenzio che la scultura è in grado di effondere al suo intorno.


Soprattutto adesso, in cui è una scelta, altra rispetto a quella di infilare altoparlanti, motorini e lucette ovunque. La scultura tace e predispone al pensiero. Guardando si pensa, senza dover ascoltare altro che lo scorrere dei propri pensieri, sincroni allo scorrere dello sguardo sulle superfici. La danza dello sguardo è ritmo per il pensiero, melodia che ne lubrifica il procedere, che trasforma il silenzioso scivolare in un viaggio di voli imprevedibili ed ascese velocissime, traiettorie impercettibili, codici di geometria esistenziale. Questo viaggio del pensiero si svolge in un tempo immortale, ci allunga la vita. Gli istanti che passiamo in questa dimensione contemplativa sono senza morte, si svolgono in luoghi ove non si muore, ma si pensa. La scultura riesce in questo, come le altri arti visive, ma lo fa non con una finestra, come la pittura, che ci inchioda di fronte al suo schermo contemplanti. La scultura ci lascia il nostro corpo, per orbitarla, per scegliere, per percorrere lo spazio o sederci in un luogo di presenza sincrona e reciproca.


Il suono invece riporta sempre ad una contingenza, ad un tempo e quindi ad luogo presente indicativo, transeunte, in preda all'entropia, il cui scorrere è un nostro perderci nella corrente, incapaci di indicare ne la nostra posizione, ne la nostra velocità. La musica addomestica le circostanze del suono e le usa per muovere le nostre emozioni come marionette. Nel suono vi è l'eccitazione della vita che sfida la morte. Nel silenzio invece chi è vivo pensa ma non muore, mentre chi è morto non pensa, non sente il silenzio, è solo oblio.

Questa capacità della scultura nella storia della critica è stata definita in modi fantasiosi e spesso rasentanti l'esoterismo. L'aura dell'opera, che ne prefigurerebbe proprietà sovrannaturali è naturalmente un'idiozia, ma almeno è una definizione coerente con l'ambito visivo del suo campo di intervento, allude ad un'atmosfera di luce, con una componente implicita di silenzio, purtroppo però dovuta ad una presunta sacralità indefinibile. Invece se vediamo nell'essere della scultura uno strumento atto allo svolgersi del pensiero e che questo necessiti di silenzio per ascoltarsi e muoversi, avremo come inevitabile l'attivazione di zone attorno all'opera, come mera conseguenza meccanica. Attorno al fuoco ci scaldiamo ma sappiamo benissimo che non contiene un dio o uno spirito.

Mi piacerebbe inoltre, come ultimo inciso, che il silenzio tornasse anche intorno alla scultura, che non andasse spiegata, descritta, interpretata, quantomeno non fino a sgualcirne la poesia o al costruirle attorno un mondo che di per se non è stata in grado di evocare. Va molto bene lo scolarizzare al linguaggio della scultura, affinché poi ciascuno abbia una propria autonomia di fruizione. Altra cosa è approfittarsi dell'ignoranza per associare concetti e valori a cose che sarebbe già un complimento definire oggetti. La scultura non è un oggetto, ne un pupazzo, ne tantomeno un decoro. È una macchina linguistica, che percorsa dalla sguardo, conduce il pensiero in luoghi e tempi altrimenti inaccessibili. E questo avviene in silenzio. Mi sono preso la libertà di citare un paio di testi di Battiato in questa dissertazione, come umile ringraziamento del suo prezioso lascito artistico.










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© Edizioni Archos

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