Redazione ArtApp
6 giorni fa
"Les Garçons Bouchers", Irving Penn 1950
Il curatore svizzero Urs Stahel, direttore artistico della Fondazione Mast, che ha sede a Bologna, torna a stupirci, questa volta dedicando un approfondimento monografico immaginifico su un oggetto di costume, un indumento di caratterizzazione e distinzione, persino deputato spartiacque di identità sociali, di gergo economico e classe di appartenenza: "Uniform". Oltre 600 scatti sono ospitati per l'occasione dalla Fondazione Mast in una doppia esposizione “Into the work/Out of the work. La divisa da lavoro nelle immagini di 44 fotografi” e la monografica dedicata all'artista Walead Beshty. Una panoramica dettagliata che va dagli indumenti di lavoro, tipici ed atipici, in una griglia di coloratissimi impiegati tedeschi, tra i quali si riconosce persino un Babbo Natale, sino al trasformismo militare di Olivier Silva, del quale si segue il percorso metamorfico dalla morbidezza delle fattezze del giovane, appena arruolatasi, alla rigida levigatura del suo aspetto: il taglio dei capelli, l'espressione prima bonaria poi risoluta. Il peso della divisa ne muta carattere e temperamento.
André Gelpke
L'uniforme, distinta in blue-collar e in white-collar, con l'entrata in voga del terzo e più desueto termine pink collar dagli anni Settanta, incarna lavori dalla vocazione differente: da una parte le blue utilities degli inservienti delle fabbriche, degli operai e di coloro che svolgono attività principalmente manuali, dall'altra il bianco, legato al lindore del completo giacca e cravatta di avvocati, banchieri, amministratori, finanzieri. Il rosa contraddistingue quei lavori che sono stati considerati, quasi a sminuirne lo spessore e l'importanza, come "femminili": il fornaio, l'editore, l'infermiere e così via, senza parlare delle logiche di subordinazione e delle implicazioni di genere connessi a tale atteggiamento di svalutazione.
Helga Paris
L'abito da lavoro è cambiato nel tempo ed è stato importante chiedersi se si potesse congiungere fashion e stile alla praticità di un capo concepito come funzionale. Varvara Stepanova, moglie di Rodchenko, fabbricava abiti costruttivisti, capi d'abbigliamento sportivi e da lavoro, vincolando il valore estetico alla specifica destinazione d'uso: dovevano assecondare i gesti di chi li indossava e agevolarne i movimenti. Se la durabilità dei materiali per le divise dei colletti blu deve essere assicurata da una parte, dall'altra l'abito da lavoro essendo un indumento indossato quotidianamente deve saper rispettare indici estetici e di design. Il curatore Urs Stahel evidenzia la divergenza di due termini italiani utilizzati per parlare dell'abito da lavoro: mentre "uniforme" enfatizza l'aspetto di unione e aggregazione, "divisa" fa emergere l'aspetto di separazione/segregazione di un singolo gruppo rispetto alla massa. Le uniformi civili dei militari con la loro estetica improntata all'ordine, alla pulizia, alla sobrietà della persona, gli abiti dei gruppi religiosi o dei componenti di un club, sottolineano di fatto l'appartenenza ad una classe sociale, ad un rango, ad un sistema di valori condivisi da un ristretto milieu di adepti.
Song Chao
I ritratti close-up dei minatori cinesi, realizzati da Song Chao, costruiscono una scacchiera dove i volti, sporchi di ruggine e coperti dai caschetti, sembrano rivendicare ognuno il proprio spazio, il loro pensiero indipendente, pur riconoscendosi parte di una comunità. Helga Paris, con gli scatti nelle fabbriche tessili, concentra il suo sguardo sulle problematiche delle operaie donne, spesso sottopagate rispetto alle mansioni svolte e ai loro equivalenti maschili.
Barbara Davatz si chiede come si affermi l'identità in un mondo di lavoratori e immortala in diversi scatti i lavoratori di un'azienda internazionale di vestiario come H & M che si caratterizzano per un tratto comune: lo stile anti-uniforme e le restrizioni della loro giovane generazione.
Weronika Gesicka si contraddistingue per i ritratti ironici ed ambigui di una famiglia polacca, dove il destino ed i volti delle generazioni si ripetono uguali a seconda del genere, i bambini si gettono tra le braccia del padre in carriera, non appena torna a casa, la donna da brava moglie casalinga sfodera il suo sorriso migliore, a tutti denti. Tobias Kaspar in "The Japan collection" fotografa delle scenette in tessuto di maglia ove una nobildonna riccamente abbigliata è servita e riverita da un cameriere.
La fotografa tedesca Herlinde Koelbl dedica il suo obiettivo a rappresentanti politici e del sistema economico che influiscono sul sociale, nella serie "Angela Merkel la Cancelliera" si mette in posa e viene ritratta a mezzo busto. Il progetto a lunga durata prevede che l'artista intervisti i soggetti ritratti, colmando con le parole ciò che la fotografia non può catturare. L'abbigliamento ha un ruolo fondamentale, le giacche ed i completi coordinati donano sicurezza alla leader, saldano la sua immagine, le emozioni sono protette da una corazza che la fa apparire risoluta, impeccabile, incorruttibile, nonostante possano affiorare, trapelare in trasparenza, tentennamenti e sfumature di umore sul viso. "Il piacere, la soddisfazione, viene dall'ottenere un effetto sulle cose. Convergere la teoria nella pratica e non fare piani solo per gettarli come cartaccia nel cestino" confida la Merkel nel 2006.
Il duo Clegg e Guttmann, attento a delineare le tracce del prestigio sociale, immortala i dirigenti di una multinazionale. Lo sfondo nero che scaglia i busti dei personaggi in uno spazio virtualmente infinito e senza coordinate ricorda i ritratti di corte rinascimentali o i dipinti fiamminghi: la postura, la gestualità, l'enfasi sui volti, sui completi nuovi di zecca e sulle cravatte ben annodate, fanno sì che la retorica del potere trasudi dall'immagine. Altra tematica sotto i riflettori è la nudità - una nudità costruita, non priva di orpelli e veli - che viene promossa deliberatamente ad "indumento da lavoro" come in Sesso, teatro, carnevale di André Gelpke. Herb Ritts con il suo magistrale ritratto del meccanico, in pantaloni e petto nudo, scarmigliato, sudato, il naso sporco dalla fatica e dall'olio, i muscoli delle braccia tesi nello sforzo di sollevare due pneumatici, buca la superficie fotografica in un'immagine sensuale.
L'abbigliamento e, nello stesso folgorante istante, il mestiere diventano quindi indicizzabili per erotismo: il camice del medico o dell'infermiera, la tuta dell'idraulico, la gonna e il foulard della hostess diventano oggetti discorsivi, emananti messaggi di seduzione che alimentano e confezionano stereotipi e categorie di desiderio carnale. Per finire Marlanne Mueller crea una serie di video proiettati su uno schermo rettangolare. L'immagine registrata è quella di un guardasala che, a grandezza naturale, ci scruta e ci spia dallo schermo, pronto a vigilare sulle nostre azioni.
"Univerity Museum Preparator", Walead Beshty
La personale di Walead Beshty ha il merito di mostrare i processi sotterranei, le scartoffie che solitamente evitiamo di ordinare, i meccanismi e i fili che muovono il mercato, le procedure di allestimento e gli automatismi a cui non facciamo caso nel mondo dell'arte. Le scatole d'imballaggio Fedex, i trasporti, il viaggio di un'opera da un punto all'altro del globo. Da un corpus particolarmente esteso, 1400 scatti, sono state estrapolate 364 fotografie da esporre al Mast. In questa nutrita selezione risulta evidente quanto alcune identità e maestranze del sistema dell'arte ricorrano in luoghi distanti tra loro, a garantire la credibilità e la solidità del sistema stesso. L'artista non a caso definisce questa serie "Industrial Portraits", immortalando, in pose il più possibile consuete e coerenti con il ruolo esercitato, i componenti di questa delicata struttura.
Achille Bonito Oliva negli anni Settanta definiva il sistema dell’arte come “una catena di Sant’Antonio, in cui l’artista crea, il critico riflette, il gallerista espone, il mercante vende, il collezionista tesaurizza, il museo storicizza, i media celebrano, il pubblico contempla (…)” a ricordare che dietro il valore pecuniario dell'opera d'arte non c'è semplicemente un riconoscimento della sua validità come testimonianza artistica, della sua integrità estetica, della sua ricercatezza intellettuale ma un tragitto che l'opera stessa ha compiuto, raccogliendo lasciapassare istituzionali, sollevando l'interesse di un grande collezionista, garantendosi l'appoggio di una galleria "stellata", l'attenzione di un critico o di un curatore rinomati.
"Collector Los Angeles", Walead Beshty
Nonostante gli innumerevoli addetti dell'art Industry cerchino di apparire il più possibile se stessi, non omologati e privi di una riconoscibilità legata al mestiere, l'ambiente circostante li assorbe, influenza la loro attitudine, li restituisce omologhi del contesto. Così il mondo dell'arte che promuove un approccio creativo alla realtà, alla società, alla moda e ai costumi finisce per emanare etichette, standardizzare lo stravagante come fosse il consueto. Bandisce il trasandato vero per il trasandato studiato, affianca l'elegante con l'eccentrico, e chi fugge e cerca di rimanere disinteressato alle apparenze viene inghiottito nel meccanismo.
Walead Beshty non ha bisogno di spiegarsi, le sue fotografie come le sue parole hanno una forza d'attrazione sconcertante: «un mondo in cui l’uniformità dell’abbigliamento professionale è vista con repulsione, in cui vige, come segno distintivo di un gruppo sociale estremamente differenziato e individualistico, una sorta di tacito codice dell’anti-uniforme, del “tutto, ma non l’uniforme”. Basta non apparire come l’altro, il prossimo, basta non apparire uniformati, omologati. Con il rischio, tuttavia, che questa definizione in negativo si riveli nuovamente, per tutti gli attori che operano in quell’ambiente, un atteggiamento uniformato e standardizzato. Nonostante lo sforzo con cui ogni individuo ritratto mira a mostrare una presenza e un’immagine unica, personale e originale, rimaniamo dipendenti dal contesto, siamo spesso prigionieri del nostro atteggiamento individualistico».
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© Edizioni Archos
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